Tesi di: Alisya Tridico.
Non si sa con precisione quando il linguaggio sia comparso e neanche da cosa abbia avuto origine. Pensare che sia apparso all'improvviso e che abbia raggiunto in poco tempo il livello sofisticato di oggi è inverosimile. Che il linguaggio abbia sede in un emisfero del nostro cervello però, venne dimostrato solamente nel 1861 quando il chirurgo francese Pierre Paul Broca ebbe l’opportunità di eseguire un’autopsia su un paziente che soffriva di un grave disturbo del linguaggio. L’uomo, era sorprendentemente ed involontariamente riuscito a preservare numerosi aspetti della sua intelligenza. Alla sua morte, attraverso l’analisi del suo cervello, Broca riuscì ad associare quel disturbo ad una lesione in un'area specifica dell’emisfero sinistro, denominata poi appositamente Area di Broca, sede anatomica del linguaggio.
Prima di queste importanti scoperte, la correlazione tra linguaggio e cervello - o meglio tra linguaggio e pensiero - era un dibattito prevalentemente di natura filosofica e solo recentemente è entrata a far parte degli ambiti di studi linguistici con lo sviluppo della psicolinguistica, ambito di ricerca interdisciplinare che si occupa di indagare sui fattori psicologici e neurobiologici che stanno alla base dei processi di produzione e comprensione linguistica e di acquisizione del linguaggio.
Ad emergere nel repertorio degli infiniti argomenti e fenomeni analizzati in questo campo, è il controverso rapporto tra lingua, cultura e pensiero esplicitato nella famosa, affascinante ed enigmatica “ipotesi di Sapir-Whorf” attribuita ai linguisti Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf. In maniera estremamente sommaria, l'ipotesi di Sapir-Whorf sostiene che i parlanti di lingue diverse pensano in modo diverso e che quindi, conseguentemente, il pensiero umano è plasmato dal linguaggio. Nonostante la sua importanza, questa ipotesi è stata affrontata solo occasionalmente in termini computazionali, suscitando parallelamente euforia e polemiche.
A mettere in secondo piano il vero intento dei due linguisti, sono state proprio la pericolosa disinformazione e la cattiva diffusione dell’ipotesi, che hanno contribuito all'incremento di opinioni discordanti che vanno a screditare anche i recenti risultati ottenuti dalle varie indagini empiriche, attribuendo concetti mai esplicitati direttamente né da Edward Sapir che da Benjamin Lee Whorf.
L’ipotesi Sapir-Whorf è stata tanto discussa e criticata poiché il suo carattere speculativo non si presta facilmente a concepire un disegno sperimentale che possa confutare o meno la sua veridicità. “Relatività linguistica” e “determinismo linguistico” sono le denominazioni con le quali tale ipotesi viene generalizzata, associandola spesso esclusivamente all’intrigante storia degli Inuit e delle 20 e più parole che usano per indicare la neve. La teoria della relatività linguistica, specie in seguito alla sua formalizzazione entro i confini dell’Ipotesi, ha goduto nel corso degli anni di una fama altalenante. Modificata, confutata, accantonata, rimaneggiata, superata, riconsiderata, essa è rimasta comunque al centro di molti dibattiti antropologici, linguistici e psicologici.
Con il termine “relatività” si intende un riferimento esplicito alla teoria della relatività di Einstein. Infatti, così come questa prevede che gli osservatori di un dato sistema di riferimento, diverso per localizzazione, velocità e direzione, giungono a diverse osservazioni e misurazioni degli stessi fenomeni, allo stesso modo la relatività linguistica prevede un effetto dei sistemi di riferimento linguistici sulle osservazioni di parlanti di diverse lingue. Sarebbero quindi gli effetti della diversità delle lingue sulle attività umane a determinare quindi la relatività in questo contesto.
Si evincerà inoltre, come la questione del linguaggio si concretizzi nei primi veri e propri studi di linguistica comparativa, quando invece inizialmente era unicamente un dibattito di natura filosofica composto dall’analisi del concetto di pensiero e del concetto della lingua. È cruciale ricordare la piega al quanto razzista che questi studi avevano preso nel panorama americano, soprattutto nello studio delle lingue dei nativi americani, basato su una vera e propria gerarchizzazione delle lingue, partendo da quella che era considerata come la più civilizzata, fino ad arrivare a quella che era considerata come la meno civilizzata. L’idea di riferimento era che il carattere di un popolo e la sua lingua andassero in parallelo; i criteri secondo i quali talistudi venivano effettuati però, sviarono in un’ideologia pressoché razzista, infondendo la superiorità e l’autorità della lingua inglese rispetto alle altre lingue considerate “minori”.
“La lingua inglese è una lingua metodica, energica, affaristica e sobria che non si cura della coerenza logica. Essa si oppone ad ogni tentativo di restringerne la vita con regolamenti polizieschi e norme restrittive, siano esse di grammatica o del lessico. Tale la lingua, tale il popolo” (Jespersen, 1905 cit. in Fisherman 1982).
L’idea di supremazia linguistica e l’idea di supremazia intellettuale si allineano attraverso queste prime affermazioni ed è così che la correlazione tra lingua e pensiero guadagna sempre più interesse. L’intervento di Edward Sapir e del suo allievo Benjamin Lee Whorf però, è il vero motivo per il quale la questione si presta ad acquisire un valore sperimentale. I due linguisti sono stati in grado di analizzare ed enfatizzare le differenze presenti nella struttura linguistica di alcune lingue indigene, attraverso una lenta, esaustiva e meticolosa ricostruzione della laboriosità delle lingue amerindie, tanto nell’ambito psicologico che linguistico.
L’intento era quello di dimostrare come la loro complessità e dignità fosse giustamente pari a quella delle lingue europee, considerate come lingue minori, delineando quei tratti, più o meno celati, appartenenti a schemi e prospetti differenti, che lasciano una visione, nonché esperienza del mondo che ogni lingua può offrire. Con questo lavoro di tesi si vuole dunque far chiarezza sulla definizione dei termini di questa ipotesi sommersa in una miriade di critiche che, come si vedrà, nascono da incomprensioni e fraintendimenti degli scritti lasciati da Sapir e da Whorf, presentando al contempo recenti studi con applicazione empirica volti ad avvalorare gli effetti della relatività linguistica.
Il primo capitolo presenta una spiegazione più dettagliata dell’ipotesi al fine di poter individuare le prime radici del suo intento linguistico, analizzando le prime fonti in cui si evince un accenno di relativismo, per poi porre particolare attenzione sui protagonisti Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, esaminandoli prima singolarmente e successivamente, in modo collettivo, partendo dai lavori che hanno influenzato ed ispirato poi la teoria stessa. Al fine di costruire un quadro completo e libero da pregiudizi, nel secondo capitolo vengono analizzati in prima battuta quegli scritti di Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf dove si evince maggiormente l’intento originario degli autori, facendo chiarezza sui termini di fatto usati dai due linguisti, per poi commentare alcune delle critiche susseguitesi che riguardano alcuni dei passaggi presenti in questi scritti.
Nel terzo capitolo si approfondirà il concetto di universali linguistici, pietra miliare delle critiche subite dall’ipotesi in esame e verranno spiegati i punti di vista dei rispettivi studiosi, sia a favore che a sfavore della stessa. Il medesimo capitolo delinea inoltre l’attuale approccio empirico applicato all’ipotesi, presentando i progressi effettuati fino ad oggi in ambito psicolinguistico e menzionando alcuni degli studi effettuati recentemente sulla relazione tra sociolinguistica e grammatica.
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