Tesi di: Edoardo Bramerini
La mia dissertazione tratterà il concetto di “Bello” nella poetica di Gabriele d’Annunzio e nell’opera “Il Piacere” del medesimo artista.
Ho scelto l’opera “La Venere” di Botticelli come raffigurazione del tema che tratterò, in quanto essa rappresenta l’emblema, il fulcro della bellezza e della purezza.
Ho optato per questo argomento, perché è sempre stato un tema per me di particolare interesse, che ho avuto modo di approfondire durante gli studi scolastici.
Ho sempre apprezzato questo concetto nel quale talvolta riesco a rispecchiarmi, dato che la corrente letteraria a cui egli appartiene è diventata col tempo, grazie anche alle molteplici letture, la mia preferita in termini di narrazione, ideologia e rappresentazione.
Fin dall’antichità “Il Bello” ha rappresentato uno dei valori essenziali nella vita dell’uomo, perché esprime l’idea di ritmo, di armonia e di ordine, incarnato nel modello per eccellenza, l’atleta, connubio perfetto di qualità fisiche e morali.
In tempi più recenti Winckelmann ha ripreso questo concetto, attribuendo all’arte greca la “nobile semplicità” e “quieta grandezza” che rende l’uomo libero dai limiti delle passioni e capace di vedere le cose in maniera più nitida.
Gabriele d’Annunzio, raffinato esteta e maestro di edonismo, vuole “vivere la propria vita come si fa un’opera d’arte”, elevandosi rispetto alla massa degli uomini comuni e assaporando tutti i piaceri che la vita offre, impersonando il gusto e le aspirazioni della sua generazione, e imprimendo nella sua opera l’orma del suo ingegno non comune. Il turbine delle passioni giovanili tenderà ad attenuarsi con l’arrivo dell’età matura, quando si inizia a comprendere la vita e viverla più serenamente e profondamente.
Bello è ciò che fa stare bene, e il senso estetico sostituisce il senso morale, in modo da poter vivere attimo per attimo una vita unica e suprema, ricercando nel piacere il mezzo per conoscere la vita inconscia, che sfugge agli schemi dell’intelletto e della ragione.
Perciò diventa quasi esasperato il desiderio di lusso e di lussuria, secondo il gusto della Roma barocca, sfarzosa, raffinata, mondana e corrotta, dove il seduttore Andrea Sperelli, bello e spregiudicato, vive una vita frenetica e dissoluta e le proprie avventure amorose lontano dai pregiudizi.
Per lui, il culto passionato della bellezza è un valore assoluto da realizzare a ogni costo ed è l’arte che coincide con la vita, lo strumento per una vita avventurosa, “inimitabile”, nella quale trionfi una vitalità sincera ed istintiva.
All’esuberanza sensuale si collega il culto della bellezza, riservato a pochi eletti, agli spiriti superiori, ai quali tutto è concesso, avendo una sensibilità singolare e sublime.
La bellezza della vita è descritta in tono enfatico e deve essere vissuta per intero assaporando la miriade di sensazioni con le quali l’uomo inimitabile ha a che fare (“La mia anima visse come diecimila”).
La bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana e Andrea Sperelli bello e apparentemente imperturbabile, attraversa indenne tutto quello che nella vita non gli appartiene sperimentando, volta per volta, ciò che lo fa stare bene.
L’esteta D’Annunzio è il dandy lontano dalla banalità quotidiana, anticonformista, che disprezza i canoni morali imposti dalla società, lo stesso che Oscar Wilde propose nel suo “Ritratto di Dorian Gray”, in cui demolisce le remore morali della società inglese del suo tempo che si opponevano alla libertà della creazione artistica.
Il mondo, secondo lui, aveva represso l’inclinazione naturale dell’uomo, l’adorazione dei sensi che doveva essere recuperata e attuata.
Anche il Dandy dannunziano è l’eccentrico che conduce un’esistenza sfrenata, amorale, libera e che si lascia trascinare dai piaceri della vita, fuggendo dalla realtà nella quale si trova imprigionato con determinazione.
La vita eccessiva, piena di scandali, ma anche di atteggiamenti inusuali, è in realtà un modo per soddisfare un’esigenza sempre crescente di protagonismo, ma anche la volontà di superare l’insoddisfazione di vivere lontano da un mondo sempre disprezzato.
La spettacolarizzazione della propria vicenda è fatta più per colpire il lettore che per farlo riflettere, è il bisogno trasgressivo e contraddittorio di un uomo fondamentalmente insoddisfatto e alla ricerca di qualcosa che non troverà mai.
D’Annunzio uomo morì nel 1938, ma l’eco prodotta dalla sua opera sensazionale durò molto a lungo; probabilmente al di là di un’apparente sicurezza, il suo messaggio narra le contraddizioni e le difficoltà di chi vive la fine del Verismo e la nascita del Decadentismo, e porta con sé l’insoddisfazione e la ricerca inutile di qualcosa di nuovo e di migliore che possa appagarlo.
Dietro il bell’aspetto e l’entusiasmo incondizionato di Andrea Sperelli, alter ego di D’Annunzio, si celano una serie di sentimenti contrastanti, che mostrano un’identità opposta a quella reale. Il poeta crea i suoi “miti” per raccontare sotto diverse forme debolezze e limiti di un uomo spiritualmente raffinato, lontano dalla mediocrità e dalla corruzione di una massa inetta.
D’Annunzio è l’intellettuale carismatico, solo e affascinato da ciò che viene ritenuto immorale dalla società del tempo, quasi un divo che tende a impressionare con gesti eclatanti e amori peccaminosi, tra i quali la relazione con la famosa attrice Eleonora Duse.
La lussuria diventa il risvolto del disgusto e della falsità di una società meschina, sempre però mantenendo una visione estetizzante. D’Annunzio "risuonò nella letteratura italiana una nota fino ad allora estranea, sensualistica, ferina, decadente", come afferma Benedetto Croce.
La novità è rappresentata proprio dall’ultimo aggettivo di questa citazione perché, così come un secolo prima Ugo Foscolo aveva portato sul suolo italiano la figura dell'eroe romantico con Iacopo Ortis, d'Annunzio "importa" il modello dell'esteta decadente dal “Ritratto di Dorian Gray” di Wilde.
Con Andrea Sperelli emerge la figura di un uomo debole, potremmo dire, perché già la prima opera dannunziana rivela la forte fragilità dell'estetismo: il protagonista vive, per tutta la durata del romanzo, il suo grande fallimento in qualità di uomo e di intellettuale, in particolare alla fine del romanzo, quando pronuncia il nome di Elena mentre si trova con Maria, che lo abbandona.
Il fallimento può essere misurato, per esempio, nel rapporto con la donna, che si sdoppia rispettivamente nella lussuriosa Elena Muti e nella purissima Maria Ferres: due figure femminili opposte e complementari, che si scindono l'una dall'altra, ma condividono tratti significativi, tanto da essere confuse ed entrambe desiderate dal poeta.
L’esteta si trova spesso in situazioni di grande difficoltà, disagio e conflitto personale, perché il suo voler vivere una vita sfrenata, senza mai tenere a bada i propri sentimenti e vivendo nella totale lussuria, lo portano ad avere un rapporto conflittuale e insoddisfacente con le sue spasimanti.
Andrea fallisce, non riesce a dominare la realtà nella quale vive: egli rimane totalmente straniero nei confronti dell'eros e della vita intera; vorrebbe subordinare tutto all’arte in una società di massa, volgare, arrivista ed insensibile.
Anche la vendita della casa di Maria per i debiti di gioco accumulati dal marito rappresenta la sconfitta della bellezza e dei valori puri ad essa collegati.
La maggior parte degli avvenimenti è, non a caso, narrata dal protagonista in un discorso indiretto libero che, in termini di narrazione, viene usato per recuperare il vissuto solo come un flashback. Ciò che lega Andrea al mondo sono la memoria e la rievocazione, unici elementi che garantiscono l'unità strutturale del romanzo.
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